A che serve urlare?
Le urla umane hanno funzioni molto diverse a seconda dei contesti. Le urla salgono al cielo in manifestazioni collettive, in relazioni intime, persino in solitudine. Le urla possono indicare entusiasmo (come quando vince la squadra del cuore o quando si assisteva ai concerti dei Beatles); paura (come quando si fugge da un pericolo collettivo); rabbia (come quando si manifesta contro un potere negativo). In solitudine le urla possono essere di dolore, rabbia, paura, tristezza, ma anche gioia e piacere. Le stesse emozioni le troviamo nelle dimensioni relazionali. Le urla possono essere di piacere e persino condividere una gioia comune. I genitori possono urlare di gioia quando il loro figlio prende un bel voto a scuola, urla liberatorie anche di una certa dose di paura. Ma la maggior parte delle volte che si urla nelle relazioni bilaterali non si sta festeggiando.
Come coach, troviamo spesso manager e imprenditori che urlano in faccia ai propri dipendenti: fra adulti sappiamo che queste situazioni dimostrano arroganza, disprezzo e generano rabbia e umiliazione. I problemi non vengono risolti, le relazioni si deteriorano, le motivazioni si eclissano. E allora perché continuano a urlare? Perché l’urlo dell’autorità era il simbolo di chi assumeva rispetto dalla paura altrui, ha segnato la storia dei dislivelli di potere, ha accompagnato la dinamica delle sopraffazioni. Di queste dinamiche antiche rimane l’urlo, impotente e devastante. Quando abbiamo creato gli allarmi, li abbiamo dotati di suoni che suscitassero paura, emozione che predispone i corpi alla fuga. L’urlo serve a suscitare paura e la paura è fonte di potere. Il potere di indurre l’altro a un comportamento che non sorgerebbe spontaneo. Ma quando l’autorità non si fonda più sulla paura, urlare ha senso?
L’urlo rappresenta un’alchimia di emozioni genitoriali: la frustrazione, la rabbia, l’impotenza. A differenza di un bimbo che urla per farsi ascoltare, i genitori urlano per punire. L’urlo di una madre o di un padre non sono certo analoghi agli urli di un tennista che ricerca la potenza di un colpo o di un pesista che esplode la potenza della sua forza in un istante dato. Al contrario sono urla di impotenza, spesso di disperazione, sempre di rabbia. In un essere umano, ricevere un urlo ha un effetto sconvolgente. L’acutezza, la forza e soprattutto l’asprezza che veicola un urlo scuotono non solo la corteccia uditiva, ma l’intero sistema emotivo, in particolare l’amigdala e l’ippocampo. Suscitano paura. Quando i genitori urlano fra di loro, competendo in asprezza, per punirsi reciprocamente in un conflitto che usa la voce come arma, i figli provano solo dolore e paura. Ma anche l’adulto che in ufficio viene rimproverato dall’asprezza della voce del capo, non solo non sarà predisposto al cambiamento, ma proverà paura e risentimento, ovvero rancore e rabbia al tempo stesso. Anche se starà in silenzio.
Eliminare l’urlo dall’arsenale pedagogico, formativo e direttivo è determinante. Un segno di civiltà. Ma non basta. L’alternativa all’urlo non è una gentilezza ipocrita. E’ l’integrità. Ascoltare, comprendere, conoscere implica un dialogo integro, ovvero scevro da pregiudizi e imposizioni. Un dialogo interno che sappia leggere e risolvere i propri sensi di rabbia e impotenza in soluzioni costruttive e un dialogo relazionale che sappia comprendere le ragioni dell’altro e veicolare le proprie. Smettere di urlare e cercare l’integrità, significa intraprendere un viaggio in un nuovo modo di essere, apprendere e insegnare. Mollare il potere generato dalla violenza e assumere il potere della competenza, che sta al servizio della crescita altrui e del benessere comune. Per cominciare a migliorare, basta togliere quello che non funziona, che fa male, che distrugge. Il resto, a volte, viene da solo.
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