Da quando siamo piccoli ci dicono che se non riusciamo è perché abbiamo difetti, mancanze, limiti. Noi stessi quando non stiamo bene, ci autocritichiamo. Siamo spietati con noi stessi. Misuriamo la differenza fra noi e un modello “ideale” e facciamo di tutto per ridurla. La nostra stessa sofferenza sembra dipendere da una mancanza, il nostro miglioramento da una riduzione dello scarto. Il malessere stesso sorgerebbe da debolezze e fragilità. E’ un’immane fatica di Sisifo provare a essere migliori. La pietra dell’autostima rotola in basso al primo smacco.

C’è la possibilità di un altro punto di vista. Anticamente lo concepirono i Wendat, un gruppo etnico nativo americano di lingua irochese. Nel 1600, quando i primi gesuiti li incontrarono intorno al lago Ontario, erano più di 30.000.  I Wendat crearono il concetto di Ondinnonk, ovvero il desiderio dell’anima. Per i Wendat ognuno di noi ha desideri originali, propri, individuali che vengono espressi dal nostro spirito interiore. Le potremmo chiamare aspirazioni, tensioni, afflati, motivazioni, ambizioni. Loro pensavano che l’anima li suggerisse tramite i sogni, in un linguaggio da interpretare e decifrare. L’Ondinnonk, il desiderio dell’anima, doveva dunque essere codificato. I Wendat allora si riunivano. Intorno a un fuoco, nella penombra di una tenda, uomini e donne interpretavano la visione onirica proposta da uno di loro e quando riuscivano a comprenderla si impegnavano a realizzarla tutti insieme. I Wendat infatti credevano che se l’anima non fosse stata soddisfatta, si sarebbe ribellata contro il corpo generando dolore e malattie. Il malessere dunque era sintomo di un’anima insoddisfatta e repressa che si ribellava alla ricerca della libertà di esprimersi. Non era dovuto a mancanze o difetti, ma a presenze che spingevano per realizzarsi.

L’Ondinnonk simboleggiava dunque il nostro potenziale. Le risorse per realizzarlo non erano individuali, ma comunitarie. Il singolo realizzava il suo potenziale con gli altri e grazie agli altri, suoi alleati, interpreti e co-costruttori.
Nella pratica professionale, abbiamo notato qualcosa di molto simile. Le molteplici sofferenze che patiamo a causa di eventi, problemi, relazioni non derivano dalle nostre debolezze, ma dalla repressione delle potenzialità. La differenza fra un problema che ci fa soffrire e un problema che affrontiamo con serenità sta nella repressione delle potenzialità che il primo produce a differenza del secondo. Ad esempio una lezione noiosa e routinaria causa sofferenza se reprime la creatività; un gesto prepotente insulta la nostra propensione alla gentilezza; il disconoscimento patito da una persona cara ferisce la nostra potenzialità di amare; l’assumere un ruolo che non ci appartiene fa indignare la nostra integrità; il degrado delle nostre città prova a distruggere il nostro senso di comunità e di apprezzamento della bellezza; una persona che non parla più con noi  o con cui non riusciamo a parlare devasta la nostra stessa natura che è relazionale. E come dicevano gli Wendat, queste dimensioni sfociano nei nostri sogni. Ma non solo quei sogni del sonno, anche nei sogni ad occhi aperti di cui parlava Ernst Bloch.

Il termine potenzialità è polisemico, denso, stratificato, complesso come è complesso il nostro mondo interiore. La potenzialità è un’alchimia di aspirazioni, competenze, valori, talenti embrionali, attitudini che premono per essere liberati, espressi, valorizzati e allenati. Se il malessere è generato dalla loro repressione, è anche vero che la soluzione del malessere passa per la loro liberazione. Le potenzialità infatti sono anche le leve, i mezzi e gli strumenti per la soluzione di crisi. Sono i nostri principali punti di forza che premono per essere realizzati e si ribellano se vengono repressi o trascurati, come l’Ondinnonk. La nostra anima è ricolma di desideri sentimentali e visionari. Come i Wendat avevano scoperto, realizzarli in progetti e obiettivi è la strategia per una vita più felice.

Luca Stanchieri

Coach umanista e fondatore della Scuola di Coaching Umanistico

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